martedì 10 marzo 2015

IL PORTAFOGLIO



  Amici & Amiche! Chi sta meglio di me? Guardatemi quindi: bello & dannato, i capelli al vento, gli occhiali scuri, baciato dal sole, con ancora il sopracciglio abbassato, appena uscito dalla mostra di Dondero, felice al punto giusto.
  La metropoli stessa mi sorride!
I turisti che passeggiano vicino a Termini, il panino in mano e la cartina nell’altra, i pappagalli che svolazzano nell’aria -stormi interi verdi e marroni-, le signore sorridenti, le famiglie attempate, le nonne sulle stampelle, i gattini che miagolano… ah! La Città Eterna! Ammirate il cielo azzurro e limpido, con solo una nuvola di panna montata che sembra scolpita! Abbronzatevi al sole! Sentite come picchia! E poi perdetevi… il brusio del traffico, il piacevole tepore quasi primaverile, il sorriso di mille passanti. E ripeto, io. Che cammino felice con in testa ancora tutte le immagini della mostra.
Va tutto bene.
  «Troppo bene», dice Ganesh.
  «Zitto Ganesh. È perfetto, non senti l’amore che si sprigiona nell’aria? Il cinguettio degli uccellini e le risa dei bambini? Non provi anche tu questa fantastica sensazione di pace interiore, zen quasi. Anzi, zen proprio? Eh? Eh?»
  «Non mi convince Elia. Non. Mi. Convince.»
  «Shhh, non portare sfiga. Ora raccatto la bicicletta e poi vado a farmi un bel giro. Voglio percorrere tutta la ciclabile sotto al Tevere.»
  Poi la vedo. Attorno alla mia bici. Un’intera famiglia composta da padre madre figlio nonni.
  «Non toccarlo!», urla il papà.
GANESH: Sarà una bomba. L’avevo detto io che andava tutto troppo bene.
JAMES BOND (che ovviamente ha la faccia di Sean Connery): Un attentato nel cuore della cristianità. Saranno terroristi.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: Mica quelli dell’Isis vero?
GANESH: E il tutto sulla bicicletta del nostro Elia!
IL CRICETO: Moriremo tutti!
JAMES BOND: Facciamolo muovere piano, con cautela. Crediamo in te Elia.
Mi muovo piano, con cautela. Un passo dietro l’altro, cercando di contare i secondi. Devo salvare Roma, ma prima di tutto devo salvare la mia bici.
  «Senza bicicletta sarai perduto!», urla Ganesh.
  «Dovrai andare in autobus. Per sempre!», mi fa il Criceto.
  «O peggio! In automobile!»
Quando ero piccolo volevo diventare un investigatore privato, un agente segreto insomma, una spia al soldo di Sua Maestà, come 007. Avrei sconfitto i nemici e sparato con la mia pistola. Avevo tutti gli strumenti del perfetto investigatore privato e spiavo le femmine (ma anche le bande rivali) assieme ai miei amichetti.
  «Facciamo che oggi io sono il capo dei buoni e tu muori?», mi chiedeva sempre Luciano Battistini quando scendevamo in piazzetta.
  «No no, tu non hai la tessera. Il capo dei buoni sono io. E tu muori».
Capirete quindi che, nell’affrontare un attacco terroristico, non c’è nessuno meglio di Elia Mangiaboschi.
  Ad un centimetro dalla famiglia mi blocco.
Okay. La bici c’è.
  «Cosa succede?», chiedo, lo sguardo torvo di 007.
  «Mah. A me sembri più l’ispettore Gadget», mi fa il Criceto.
  «Chi è lei?», domanda la donna.
  «Il proprietario della bicicletta.»
  «Non toccarlo!», ripete il padre al figlio.
Il ragazzino allunga la mano obesa verso il sellino.
E sul sellino
c’è lui.
È grande, viola e bello gonfio.
  «È suo! Sia lodato il Signore!»
L’alleluia si leva nell’aria. «Cantiamo fratelli!», dice San Pietro.
  «Allora ci pensa lei? Cioè, se è suo…»
  «Ma non è mio. Io non ho un portafoglio del genere… io credo nel… nel piccolo ecco…»
IL CRICETO: Anche perché, ad avere un portafoglio grande, la scomodità sarà immensa. Un portafoglio grande richiede una borsa grande. Il peso aumenta. Indi per cui un portafoglio grande è per Elia scomodo e, in definitiva, non necessario.
JAMES BOND: Inoltre un portafoglio grande, come quello che è posato sul sedile della bicicletta, richiederebbe uno sforzo di memoria non indifferente: le card da inserire aumenterebbero in maniera vertiginosa e, di conseguenza, anche la possibilità di poterle perdere.
GRANDE PUFFO: E’ statisticamente provato quindi che un portafoglio grande non è adatto a soggetti poco ordinati.
  «Non è mio», ripeto all’allegra famiglia.
  «Ma è sulla sua bicicletta», mi dice l’uomo, leggermente spazientito.
  «Questo lo vedo».
  «Non toccarlo! Potrebbe essere infetto», grida la madre al figlio. «Mi scusi», dice rivolgendosi a me, «con tutta questa gente…»
  «La chiama lei la polizia allora eh? Se non è suo».
  «L’avete trovato voi, chiamatela voi».
  «Scappa Elia! Ricordi l’ultima volta che hai avuto a che fare con le forze dell’ordine?», mi consiglia Ganesh.
  «E poi tu se parli con le guardie balbetti!», annuisce Grande Puffo.
  «Trova una scusa. Ma che sia decente!»
  «Io», dico, «veramente non posso. Ecco, ho fretta. Mi aspettano a casa, cioè, insomma. C’è la partita di mio cugino, di cucina. Una cosa culinaria. Tipo La prova del cuoco. Con la Clerici no? Avete presente? ‘Sono le tagliatelle di nonna Pina’?»
Il ragazzino ride.
  «Noi non siamo neanche di Roma! Abbiamo fatto la scampagnata! Pensi un po’: nostro figlio non aveva mai visto la Capitale. Allora li chiama lei va bene? Antonella è così una brava persona…»
  «Chi?»
  «La Clerici no? Sa come ci rimarrebbe male se sapesse che il cugino di un suo concorrente non ha aiutato una povera persona indifesa che ha perso il portafoglio e che adesso, ne sono sicuro, sta vagando per le vie della città alla ricerca dei suoi documenti?»
  «Non cascarci Elia! Vogliono minare la tua sensibilità!», sbraita Ganesh.
  «Houston, abbiamo un problema. Nervo scoperto, ripeto, nervo scoperto», dice Neil Armstrong.
Ma ormai è troppo tardi.
  «Chiami la polizia!», dice la famiglia in coro scappando.
  «Inseguili!»
  «Non posso testa d’elefante. Devo accettare il mio ruolo. Riconoscere il vincitore e accogliere la sconfitta.»
  «Su Elia, non tutto è perduto. Guarda là. C’è un bar. Sicuramente il proprietario ti aiuterà nell’impresa. Vai figliolo, prendi il portafogli e segui il tuo destino.», mi dice La Voce di Dio.
Afferro il borsello (che, osservandolo bene, sembra pure abbastanza vecchio) ed entro al bar. Al bancone c’è una ragazza che parla al telefono. Aspetto. Poi la tipa alza lo sguardo e mi sorride. Si passa una mano sui capelli in una mossa che credo voglia apparire sensuale e un po’ di forfora le rimane attaccata alle dita. Le guardo lo smalto colorato, con tutti lustrini e la scritta “I LOVE YOU” su ogni unghia.
  «Salve».
  «Ciao, dimmi», mi fa la ragazza abbassando di poco la cornetta del telefono.
  «Ho trovato un portafoglio qui fuori. Cioè, sopra la bicicletta mia. Posso lasciartelo? Così se viene il proprietario casomai se lo riprende».
  «No».
  «Eh?»
  «No. Che sei sordo?», rialza la cornetta e ricomincia a parlare. «Ma niente», dice, «‘no stronzo, manco voleva un caffè.»
Mi volto sconfitto.
  «Cosa fai?», urla Ganesh, «ti lasci trattare così!?! Sii uomo Elia, sii uomo! In te scorre sangue cheyenne!»
  «Davvero?»
  «Non puoi saperlo! Cosa avresti fatto in battaglia?»
  «Avrei lottato».
  «Fino a che punto?»
  «Fino alla morte!»
  «E può una barista umiliarti così?»
  «No!»
  «Chi siamo noi?»
  «Cheyenne!»
  «E cosa vogliamo?»
  «Morte morte morte!»
Che poi riflettendo uno mica ce l’ha tutta ‘sta voglia di litigare. Però, se c’ho ‘sto sangue indiano… ma che ne sai poi…
  Mi giro di scatto. «Senti», dico alla tizia, «io il portafoglio te lo lascio. Anche perché abito dall’altra parte di Roma e sto pure in bicicletta e me ne sto andando. Tu stai qui fino a questa sera sicuro. C’avrai il turno no? Se arriva qualcuno glielo ridai, altrimenti te lo tieni e domani casomai viene il proprietario».
  «Ma che cazzo vuoi?!? Ma dove abiti?»
  «Eh?»
  «Dove abiti?»
Oh oh. E questo che c’entra. Mi sta fregando Cristo, vuole buttarla sul personale. Devo reagire prima che sia troppo tardi.
  Ora, il problema del reagire è che, ahimè, io reagisco sempre troppo tardi. Cioè, mi impiccio. Tipo da piccolo no, quando la maestra voleva interrogarmi:
  «Vediamo… Elia!»
  «No maestra no, ho la febbre, posso essere interrogato per secondo? Dopo Fabiana? Lei è prima di me nel registro…»
  «Ma Fabiana non c’è. Vieni alla lavagna Elia, non ci far perdere tempo».
E io mica la trovavo un’altra scusa. Ché mi dispiaceva far perdere tempo, a me.
  «Trigoria. Ma non capisco cosa c’entra».
  «‘Sto borgataro! Tienitelo il portafoglio! Ora devo stare io a pensare alle cose tue! Ma guarda ‘st’insolente…»
  «Cioè, però sono di Magliana…»
  «Peggio! Ammerda!»
A questo punto sbrocco, perché dai, toccami tutto ma non Magliana: «Tu sei una stronza senza cuore! Ma che ti costa!? L’Italia fa schifo perché c’è gente come te che se ne frega degli altri! Io devo andare a casa dalla Clerici e abito in periferia cazzo e tu non c’hai niente da fare e manco il portafogli di una poveraccia ti prendi perché ti pesa troppo il culo e sei un’egoista fascista! Toh.»
  «Dai dai dai, dì che quando muore ci penso io!», mi suggerisce La Voce di Dio.
  «E quando muori poi però vediamo che dicono!», urlo.
  «‘Sto comunista», dice la donna, poi al telefono: «A Piero, c’è ‘na zecca qua!»
  «Certo che la retorica un po’ qualunquista sull’Italia che va a rotoli te la potevi risparmiare», mi dice il Criceto mentre mi volto abbastanza velocemente per fuggire via prima che arrivi Piero. «E anche il pezzo là, quando hai detto ‘Sei una stronza senza cuore’, pure quello insomma…»
  «È che farfuglia», dice Grande Puffo.
  «Non gli escono le parole…»
  «Il ragazzo non si applica».
Mi fermo a debita distanza dal bar, il portafoglio in mano. Che fare?
OPZIONE A: Far cadere con nonchalance il portafogli a terra e fuggire via.
OPZIONE B: Andare alla ricerca di uno sbirro a cui dare il borsello.
  «Butta via ‘sto coso Elia, lasciati alle spalle questa brutta storia e torna libero a casa… felice e senza pensieri!», dice Ganesh (a cui sono cresciute due ali da diavolo) posandosi sulla spalla sinistra.
  «Così facendo sarai uguale alla barista che tanto disprezzi, ti venderai al male e non adempirai al tuo dovere di bravo cittadino», mi dice Superstellino degli Snorky (che ha invece un’aureola luminosa sopra la testa) posandosi sulla spalla destra.
  «Cosa ti ha dato il mondo Elia? Niente!»
  «Pensa alla povera vecchietta che ha perso tutto, le foto dei propri cari, i documenti necessari a sopravvivere, il bancomat da cui prende la pensione ogni mese, una misera pensione sicuramente, di quattrocento euro. Rifletti Elia. Sola in casa tutto il giorno, senza neanche più il suo portafogli a farle compagnia…»
  Stringo il borsello in mano. Non posso abbandonarla così.
Cammino spedito verso la stazione, lascerò il portafoglio alla prima pattuglia che incontro e poi i tutori dell’ordine faranno il loro dovere.
  «Bravo Elia, bravo!», sorride Superstellino degli Snorky svolazzando.
  Supero la statua del Papa (puzza di piscio), due secchi gettati a terra, un autobus che rischia di investirmi e ci sono. Eccola, la sbirromobile parcheggiata in doppia fila.
  «Fai attenzione. Pure se sei dalla parte del giusto, so’ sempre guardie, ricordalo», mi avverte James Bond.
  Ed ecco che tutta la mia sicurezza fugge via, risucchiata dal vento dell’illegalità.
CARL GUSTAV JUNG: Come di certo saprete il paziente è affetto da una precoce forma di paranoia. La sola vista della polizia procura nel Mangiaboschi un tremolio non indifferente e, dal punto di vista mentale, uno stato di percezione alterata, nebbiosa potremmo definirla. Il Mangiaboschi quindi, davanti ad un tutore dell’ordine, perde tutta la sua sicurezza (già scarsa) e muta irrimediabilmente in un possibile sospetto. Capirete quindi che, con un portafoglio in mano, il paziente potrebbe facilmente essere confuso per il ladro e, in men che non si dica, finire in gattabuia.
  La milza improvvisamente scoppia. «Buongiorno», biascico.
Il poliziotto, quello grande, mi guarda. «Che c’è?», mi dice già sul chi va là.
  «Io ecco… ho trovato questo. Ve lo do a voi e non ci pensiamo più…»
  «In che senso?»
  «Cioè. L’ho trovato sulla mia bicicletta. Non io. Una famiglia… però poi l’hanno lasciato sul sellino, della bici dico. E io ecco, sono un bravo ragazzo, vorrei lasciarvelo. Così se il proprietario che ne so lo cerca vi chiama. Forse.»
Il poliziotto mi osserva. Riconoscerà in me i segni indelebili del giovane anarchico? Capirà attraverso il mio sguardo i veri sentimenti che nutro nei suoi confronti? Ma soprattutto, vorrà ‘sto cazzo di borsello?
  «Mi spiace. Ce ne stiamo andando. Abbiamo una chiamata urgente: una rissa tra topi a Corso Francia. Prova là davanti, c’è la camionetta dei carabinieri. Detto tra noi, non fanno mai un cazzo».
Dai carabinieri è la stessa storia. Il portafoglio non lo vuole nessuno.
  «L’avevo detto io di buttarlo via!», mi rimprovera Ganesh. «Ora saremo costretti a girare per Termini per sempre».
  «Scusi?», dico ad un controllore entrando in stazione, «Dov’è la centrale della polizia?»
  «Al… al binario 1 est mi spiace, mi spiace!».
No. Il binario 1 est no.
  Terribili storie si narrano sul famigerato binario 1 est: vecchi rimasti appesi ai propri bastoni, donne trafitte dalla stanchezza, uomini morti sul marciapiede, bambini ormai adulti persi per sempre. Il binario 1 est è l’incubo di qualunque pendolare. Si trova in fondo e, per raggiungerlo, devi percorrere una strada lunga chilometri e chilometri. Dicono che, lungo la via, si possano scorgere, aguzzando bene la vista, antichi scheletri di turisti ignari. Intere comunità di passanti si sono formate e bande di ex turisti americani (ormai votati al culto del binario 1 est) scorrazzano indisturbati sulla strada tortuosa.
  Così cammino, sempre più stanco, mentre un vecchio mi supera sulla sua macchinetta a scontro. Mi fermo solo un secondo per bere un sorso d’acqua (l’ultimo), poi riprendo, il sudore che sgorga allegro dalla fronte e la fatica che mi taglia le gambe. Mi sento spossato. Attorno i resti di chi non ce l’ha fatta, dei cinesi morti assiderati e degli australiani fermi, paralizzati dal sole, il teschio del canguro bene in vista. Non capisco più niente.
  «¡ɐןoɔɔǝ», mi fa il Criceto rotolando.
  «Non capisco quel che dici…», rispondo, gli occhi a mezz’asta.
  «Rotola, per questo non lo capisci», sputa Ganesh. «Comunque è lì. La centrale della polizia»,
La centrale della polizia si erge alta e maestosa, la porta è grande, immensa e due poliziotti stanno di guardia.
  Entro.
  «Aiutatemi vi prego!», urla un uomo tirando suo figlio.
  «Cosa possiamo fare per lei?», risponde una donna.
  «Ho perso l’orologio di mio padre in treno, voi dovete trovarlo!»
  «E come facciamo scusi?»
  «Siete voi la polizia, mica io! Quell’orologio appartiene alla mia famiglia da generazioni! Devo darlo a lui! Ne va del mio prestigio! Fu creato durante la Rivoluzione Industriale dai miei avi, proprietari delle industrie di carbone! È in grado di fermare il tempo!»
La donna si volta verso di me.
Il dolore alla milza scompare, al suo posto il tu tum tu tum del cuore fa il suo ingresso.
  «Ricorda Elia, ricorda. Sei innocente fino a prova contraria», mi rassicura James Bond.
  «Buongiorno, ho trovato un portafoglio», dico ostentando sicurezza.
Il padre di famiglia si volta guardandomi male. «E non è che hai trovato anche un orologio per caso?»
Faccio finta di niente.
  «Deve fare la denuncia, stanza B. Prego.»
  «Non sarebbe il caso di perquisirlo? Questi giovani… non si sa più cosa aspettarsi… glielo dico io, glielo dico. Dove andremo a finire con tutta questa marmaglia? Tossici, immigrati e barboni! Ed io ho perso il mio orologio! Io ho BISOGNO del mio orologio, lo capisce? Ne va della salvezza stessa del tempo! Il futuro dell’umanità dipende da me!»
  Cammino cercando di evitare gli sguardi degli sbirri in tenuta da riposo. Eccola, stanza B. Busso.
  «Avanti».
La camera è piccola e asettica. Le pareti sono bianche, spoglie, solo il calendario delle forze armate appeso al lato. Una lampadina bianca illumina un tavolo al centro. Sul tavolo c’è una penna e un foglio. Davanti al tavolo è posata una sedia di legno con una zampa scalfita. Un uomo è in piedi, cammina avanti e indietro, la camicia chiara appiccicata al corpo grosso e peloso. Si volta e mi guarda, ha occhi fini, da iena. Il viso è scuro, ossuto e contrasta con il fisico ben piazzato. Dal naso sgorgano fili di peli incatramati. L’uomo sorride, ha i denti storti e neri. Puzza di sigaretta bruciata.
  «Si sieda», mi ordina.
Raggiungo la sedia camminando su un pavimento lurido, sporco e con strane chiazze di rosso tatuate alla meno peggio.
  Mi siedo. «Ho trovato questo», dico.
  «Dove?»
  «Sulla mia bicicletta. Ma non a terra. Pensavo di… che era giusto insomma, sì ecco. Darlo a voi. Così se uno…»
  «Lo apra».
  «Ma non è mio».
  «Lo apra ho detto».
L’uomo mi guarda fisso negli occhi, la luce della lampadina mi acceca. L’ascella sinistra comincia a sudare.
Dentro il portafoglio c’è: una carta di credito, una tessera telefonica, un foglietto sbiadito con un indirizzo scritto male, tre assegni scaduti (ognuno intestato ad una persona diversa), una pagina strappata di un libro scritto in una lingua straniera, polacco credo, un fazzoletto usato, un appunto scarabocchiato con una calligrafia incerta, il disegno di un bambino (la faccia di una donna, quella di un ragazzino, un aereo che vola lontano), la tessera della biblioteca, la tessera dell’autobus di marzo di quattro anni fa, la tessera del supermercato, la tessera del negozio di animali “Il tuo amico a quattro zampe”, la tessera di un negozio di abbigliamento, la tessera del cinema, tre scontrini spiegazzati, il santino della Madonna, il santino di Gesù bambino, degli appunti macchiati di verde, la foto scolorita di un bambino con le guance rosse, la foto dello stesso bambino (questa volta più grande), la foto di un ragazzo bello grosso (sempre l’ex bambino), la foto di un uomo con il volto rigato dai campi, la foto di una vecchia, la foto di un manganello, un documento strappato a metà, il biglietto del treno, due lettere scritte in una lingua straniera.
  Il poliziotto si ferma a guardare le lettere, le sfoglia, se le passa -mano sinistra mano destra- le gira, le rigira, stringe gli occhi (due fessure).
  Rimango in silenzio.
  «Dove l’ha trovato?», mi chiede, la voce tremante.
  «Sulla bicicletta… proprio davanti la statua del Papa…»
  «Ecco. Deve compilare questo», dice passandomi un foglio.
Scrivo. Nel frattempo il poliziotto continua a guardare le lettere, no, non a guardarle… a leggerle. Legge le lettere e le rilegge, in un silenzio quasi glaciale.
  «Cosa devo fare adesso?»
Ha gli occhi umidi e rossi. Tira su col naso, poi se lo asciuga con un fazzoletto usato. «Mi scusi», mi dice, la voce spezzata in un singhiozzo.
  «Ora io vado, okay?»
  «Prego, vada…»
Mi giro.
  «Aspetti».
Lo sapevo, avrò fatto qualcosa di sbagliato. «Uh?»
  «Io… volevo ringraziarla. Lei ha trovato… ecco. Lo cercavamo da tanto tempo, tantissimo. Questo borsello è… era di… beh. Grazie, grazie di cuore…»
L’uomo si avvicina e mi stringe fino a stritolarmi in un abbraccio caloroso.
  «P… prego», rispondo.
Il poliziotto mi sorride, un sorriso dolce, da bambino quasi.
  Mi allontano di corsa, uscendo dalla centrale e correndo a recuperare la mia bicicletta.
  Poi via, ché la mia buona azione quotidiana l’ho fatta e non mi resta che pedalare verso il sole che tramonta. Per dileguarmi lì, nella metropoli che tutto ingloba.

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