[Nella puntata precedente (il raccontino
della settimana scorsa): Elia trova una scritta, in seguito ai lavori in
cucina, scarabocchiata sulle mattonelle: “La vita è bella perché è avariata, se
è sempre quella che vita è?!”. La curiosità prende il sopravvento e le domande
vengono poste: chi c’era prima di lui nell’appartamento? Chi ci viveva? Così
comincia ad indagare chiedendo in giro,
al vicinato soprattutto. Scopre che un uomo, forse un artista, ha vissuto lì
assieme alla moglie. Nel frattempo un’oscura presenza sembra seguirlo. Adesso
bussa alla casa di Lola, la sua vicina, per chiedere informazioni].
LOLA
Lola mi accoglie in vestaglia, mi saluta velocemente e mi fa entrare,
guardando sul pianerottolo prima di chiudere la porta. L’appartamento di Lola è
piccolo e ben curato. Ad ogni finestra sono appese decine di piante:
margherite, gerani e cactus oblunghi. Le pareti sono colorate di un giallino
tenue, rilassante, tendente all’arancione. Un grande televisore pavoneggia al
centro del salotto, acceso ma senza volume, solo le figure sbiadite dei
presentatori televisivi e delle vallette allampanate. Accanto alla tv c’è un
piccolo comodino dove è posata una foto incorniciata, la foto ritrae un ragazzo
solo, con lo sguardo imbronciato e con gli occhi di Lola. Un piccolo tappeto
zebrato è posato a terra con finta noncuranza, sul tappeto ci sono un paio di
pantofole a forma di tigre e un posacenere mezzo pieno. Poco più in là, appesi
al muro, diciassette poster in miniatura di diciassette artisti diversi, tra
questi: Klimt, Frida, Warhol, Rivera e qualche disegnatore brasiliano
sconosciuto. La casa odora di incenso, un odore forte e persistente. Mi siedo
sul divano, Lola fa lo stesso.
«Mi ha detto Simone che hai ricominciato», mi fa.
«Con cosa?»
«Con le indagini».
«Già. Ti avrà detto anche cosa sto cercando.»
«Sì, sai che il tuo amico non sa tenersi i segreti».
«Mica è un segreto».
«Cosa ti incuriosisce tanto di Matteo?»
«Di chi?»
«Di Matteo… l’uomo che cerchi».
«Non lo so, non lo so neanche io. Cioè, qui è così tutto ingarbugliato,
un casino. E ‘sta scritta, da quando l’ho letta si ripete in continuazione,
come se qualcuno me l’avesse stampata in testa, tipo un mantra».
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY (indicando
Kundalini svaccata sul divano): Lo sapevo io! È tutta colpa tua!
KUNDALINI: M’avete detto voi di
rimanere. Io me ne stavo tanto bene attorcigliata alla colonna vertebrale,
dormiente, senza coscienza. Poi l’amico vostro m’ha svegliato e…
YOGI BHAJAN: …E questi esseri ti hanno
corrotto. Tu! L’Illuminazione! La Potenza Sottile! Divinità fatta serpente!
Dov’è finita la tua saggezza? Che fine ha fatto la sapienza che brama solo di
uscire!?!
GRANDE PUFFO: Se l’è bevuta… un amaro
dietro l’altro ed eccola lì, una larva cazzo.
YOGI BHAJAN: E’ colpa vostra…
MASTRO LINDO: Secondo me si deve curare,
non è che conoscete una clinica, qualcosa… un posto carino… cioè, un centro di
recupero insomma…
CHARLES BUKOWSKI: Tipo alcolisti
anonimi…
IL CRICETO: Dovrebbe tornare attorno
alla colonna vertebrale.
IL NEURONE: La ricordo ancora, creatrice
di tutto, mia regina…
SIGMUND FREUD: Oh no, ha ricominciato,
guardate…
KUNDALINI: La vita è bella perché è
avariata, se è sempre quella che vita è?! La vita è bella perché è avariata, se
è sempre quella che vita è?! La vita è bella perché è avariata, se è sempre
quella che vita è?! La vita è bella perché è avariata, se è sempre quella che
vita è?!
Lola mi guarda. «Hai una sigaretta?»
«Tabacco».
Adoro le unghie di Lola, come si posano
sulla cartina ancora vergine.
«Matteo, un grand’uomo. Zero pregiudizi, molto simpatico, compagno di
bevute. Quando sono arrivata in Italia è stato uno dei primi ad aiutarmi, mi ha
accolto subito come fossi una di famiglia. Uscivamo insieme, tutti e tre.
Andavamo a bere in giro. Giuro, era una spugna, non ho mai visto nessuno
ingurgitare così tanto alcol… e poi fumava, cazzo se fumava. C’aveva sempre la
sigaretta in bocca. Ogni tanto veniva a dormire qui, quando litigavano… che poi
dormire, mica dormiva, tipo tre ore a notte. Però russava come un turco. Ecco,
si addormentava dove sei seduto adesso. La mattina mi faceva trovare la
colazione pronta, assieme ad un biglietto. Lui non c’era mai, lasciava solo la
puzza di tabacco. Guarda, vieni in camera mia…»
Seguo Lola in silenzio, mentre la notte
scende piano e lenta, come se il tempo stesso si fosse fermato. Lola mi guarda,
indicando un muro dipinto. Nel muro c’è un pianista disegnato, suona felice nel
suo completo nero, comodamente seduto su un binario vuoto, mentre il tratteggio
di un treno in lontananza compare sullo sfondo.
«L’ha fatto lui. Disegnava ovunque, alle volte anche sulla carta
igienica. Ah… era un gran signore, andava sempre a cena fuori, nonostante non
avesse mai un euro in tasca… io non ho mai capito come facesse, però conosceva
tutte le trattorie di Roma e tutti conoscevano lui. Credo li ripagasse con i
disegni o lavando i piatti, però più con i dipinti. Hai presente le tovaglie di
carta, quelle marroncine che mettono sui tavoli dei ristoranti?»
«Sì».
«Le riempiva di scarabocchi. Più beveva più disegnava. Poi si è iniziato
a chiudere. Io provavo a parlarci ma niente, muto come un pesce. Avevano preso
un casolare in campagna, tutto da rifare, una volta ci sono pure andata… una
bellissima giornata di primavera. C’erano Matteo e la moglie che lavoravano,
costruivano muri, mettevano a posto il soffitto, ristrutturavano il bagno. La
casa, se la sono fatta tutta da soli… con loro non potevi mai stare con le mani
in mano, per questo non andavo spesso a trovarli, mi si rompono le unghie a me.
Stavano stretti a Roma e strettissimi a Trigoria. Hai presente Il Vecchio no?
Litigavano ogni volta che si vedevano, non si sopportavano. Una volta pensa, si
era sparsa la voce che Matteo e la sua donna coltivassero marijuana (il che non
era del tutto errato) e qualcuno chiamò pure le guardie. Ho i miei sospetti. Mi
sa che se ne sono andati per questo… cioè, non per l’erba, per Il Vecchio… e
poi c’era la ragazzina…»
«La ragazzina?»
«Già… ma vieni, andiamo al K, lì lo conoscevano tutti…»
Il K è il locale di karaoke dove
passiamo le serate Simone ed io quando rimaniamo a Trigoria. È popolato da
strani freak tra cui: un nano, una ballerina di tango, un uomo in frac, un
signore con una gamba sola, una donna con il rossetto sbafato, una zingara che
legge i tarocchi, un gigante buono. Io lo adoro. Appena arrivati ordiniamo
subito due birre doppio malto e un rum. Ci scoliamo tutto alla velocità della
luce, poi di nuovo. Dal palco, nel frattempo, le esibizioni sono cominciate.
C’è un gruppo di studenti che canta a squarciagola Rino Gaetano trotterellando
sul posto. Guardo il barista, un uomo grande e grosso, e gli chiedo, lo sguardo
classico della cospirazione internazionale: «Conosci Matteo?», già pronto ad
allungargli cinque euro per l’informazione.
«Bravo Elia, bella mossa…», mi dice Ganesh. «Così si comportano gli
agenti segreti».
«Matteo chi?»
«L’artista», gli fa Lola. «Quello che abitava nel mio palazzo».
Il barista mi guarda, alzandosi le
maniche della camicia. «Cosa vuoi sapere?», sussurra.
Mi avvicino, la musica a coprire le
nostre voci. «Dov’è?»
«È andato… guarda, questo l’ha fatto lui», mi risponde indicandomi una
piccola scultura in ferro.
«Cazzo è fichissimo».
«Non dire parolacce. Comunque sì, è fichissimo. Sono tutti bulloni eh…»
«Un pianista».
«Già, dovresti trovarlo».
«Chi?»
«Il pianista, ne parlava sempre…»
Lascio Lola al locale e torno a casa. Entrando mi blocco di colpo. Di
nuovo la spiacevole sensazione di essere spiato. Ogni cosa rallenta, l’aria
stessa rallenta. Mi guardo intorno, in silenzio. «C’è nessuno?», chiedo, la
voce impastata dall’alcol.
Solo il fischio del vento.
«C’è nessuno?», ripeto.
Faccio le scale, aspettando ad ogni
piano un uomo. Le porte stesse sembrano osservarmi. Una mosca ronza veloce
sbattendo sui muri. La luce scricchiola. Da qualche parte qualcuno ride.
Mi sveglio presto, la frase ripetuta ossessivamente.
Esco di fretta, voglio vedere l’alba.
Nell’androne del palazzo mi blocco di colpo.
Cos’è?
Il suono proviene da su.
È un piano.
Corro.
La milza scoppia.
Il cuore martella.
Tre porte.
Mi fermo.
La musica si blocca di colpo.
Silenzio.
Veniva da…
Provo a bussare.
Non risponde nessuno.
SIGMUND FREUD: Analizzando i fatti,
crediamo infine che non abbia più elementi.
CARL GUSTAV JUNG: Come si suol dire, un
punto morto.
KARL MARX: Un binario morto.
MICHAIL BAKUNIN: E così compagni la
ricerca è conclusa?
GRANDE PUFFO: La signora lì, la
Kundalini, non sarà mai sazia.
IL NEURONE: Nessuno sa dove sia finito
questo Matteo.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: E la musica?
SIGNOR SPOCK: Chi abita al’ultimo piano?
IL NEURONE: Chi è il pianista?
YOGI BHAJAN: Mille domande, Amici &
Amiche, che non troveranno mai risposta.
IL CRICETO: Siamo perduti dunque.
MASTRO LINDO: Costretti a sentire per
sempre la lagna del serpente.
GRANDE PUFFO: Potremmo aprire un’altra
boccia.
SIGMUND FREUD: O fare una canna.
JIM MORRISON: O provare i funghi che ha
portato Ganesh.
CARL GUSTAV JUNG: Ecco, bell’idea… non sarebbe
male.
MASTGRO LINDO: Ma una pulitina a ‘sto
cesso una volta ogni tanto no eh?
YOGI BHAJAN: Fermi un attimo. Guardate,
fate alzare lo sguardo ad Elia, cos’è quella?
Alzo lo sguardo guardando il grande palazzo dove vivo. È lì, la finestra
nera, coperta da un panno scuro. Chi ci abita? Un brivido mi percorre la
schiena, dove mi sto spingendo? Accendo una sigaretta per rilassarmi
continuando a guardare la tenda nera che ogni cosa copre.
«Conta fino a dieci Elia, niente paranoie!», mi fa Ganesh
«Lo so, ma qui non ci capisco più niente…»
«Perché non usi più la sacra tecnica mistica dello ‘sti cazzi. Fu
inventata tanto tempo fa, nelle montagne oscure del Tibet, da una setta di
monaci eremiti, per superare le notti di ferro, in compagnia solo degli yeti.
Aumenta la tua percezione stolto e vedrai che tutto passerà. Fai come il tuo
coinquilino… rilassati.»
«Non posso, c’ho ‘sto tarlo in testa…»
IL TARLO: Buongiorno!
IL CRICETO: Oh no, ci mancava solo lui!
IL TARLO: Io sono il Tarlo…
PIERO ANGELA: Ciao amico tarlo…
IL TARLO (ammiccando): E sono venuto in
aiuto della Kundalini, per mangiare la capoccia del vostro adorato…
«Che fissi?»
Mi volto, è Il Vecchio, l’uomo a cui
sono costretto a dare i miei soldi ogni mese, colui che tutti odiano.
«La finestra nera. Chi ci vive?»
«Cosa vuoi sapere Mangiaboschi?»
Lui conosce! E se avesse rinchiuso Matteo
nell’appartamento all’ultimo piano? E se un gruppo di serial killer dell’Isis
l’avesse preso per torturarlo? O se peggio, le infermiere della clinica lo avessero
costretto ad ingurgitare cibi macrobiotici e a bere solo succhi di frutta alla
carota per sempre? E Matteo fosse impazzito, costretto ad una vita di stenti?
«Battuto bene ti sei finora, mio vecchio Elia, affrontare le tue paure
devi», mi fa Yoda di Guerre Stellari.
«Chi suona il piano? Chi vive all’oscuro di tutto, nelle tenebre?»,
dico, cercando la Forza che è in me.
«Bravo tu sei», annuisce Yoda.
«Sono io Elia», mi risponde Il Vecchio.
«Cosa?»
«Io suono il piano», dice voltandosi.
Mi giro sul letto, non riesco a dormire, devo sapere. Mi vesto di corsa
ed esco, nel buio della notte.
Salgo piano le scale senza far rumore. Di nuovo la sensazione di essere
osservato.
Sono su, all’ultimo piano, davanti l’appartamento del Vecchio. Allungo
l’orecchio, solo il ticchettio della pioggia a farmi compagnia.
Ancora. Qualcuno mi spia.
Passi.
Più veloci.
Vengono da giù, dal piano di sotto.
Chiamo l’ascensore.
Tack tack tack
Il cuore scoppia.
Una
mano mi afferra.
È
scheletrica e magra, le vene esplodono fuori, contorcendosi in mille rivoli di
sangue.
Mi giro. È Il Vecchio.
«È lei a seguirmi?», chiedo, la voce spezzata dalla paura.
«L’artista», mi dice, «non dovresti cercarlo. È passato. A cosa ti serve
sapere dov’è?»
«Il pianista…»
«Sono io. Matteo amava ritrarmi e a me piaceva. Mi metteva ovunque,
diceva che ero il suo personaggio. Ero in tutti i suoi dipinti, a casa ne ho
tantissimi…»
«Posso… vederli?»
«No. Sono miei, il ricordo di un amico. Non li mostro a nessuno, neanche
a mio nipote. È un mio segreto, uno dei pochi. Lo so sai? So cosa pensate di
me, tutti quanti. Vi prendo i soldi… adoro il denaro. Ma da giovane, ero più
piccolo di te, suonavo. Pensa, volevo entrare nell’orchestra… poi i sogni non
si avverano mai e sono finito a lavorare per mio nipote, dopo aver passato una
vita in banca. Sai cosa adoravo di Matteo? La sua passione, l’amore
incondizionato per l’arte, il non poter stare senza un pennello. Aveva un
caratteraccio però era unico. Amava.
Ogni cosa, ogni istante. Tutto per lui era grande, i sentimenti, le paure, le
ansie. Spropositato quasi, come un’adolescente. E anche questo lo rendeva
bello. Con lui parlavano tutti e vedi… Matteo entrava nei tuoi problemi, così tanto da star male. Ogni tanto
scriveva delle lettere, altre volte buttava tutto all’aria. Anche la sua vita,
l’ha gettata al vento. Quando però lo osservavi dipingere, la sigaretta in
bocca e il bicchiere accanto, potevi perderti. Lui era perso. I suoi occhi Mangiaboschi brillavano. Se ne andava
da altre parti, correva nei suoi disegni, nei campi appena coltivati o nei matrimoni
di paese, fuggiva da qui, adorava rappresentare la parte del quadro non esposta
alla luce, quella tratteggiata male, non finita. Era la sua fuga. Un tram, un
suonatore di violino, una grassa donna nuda, due ballerini, la figlia. I veri
artisti sono così. Io non lo sono, non lo sono mai stato. Però con Matteo mi
divertivo a posare. Lui mi guardava e mi tratteggiava, rendendomi parte di sé.
Mangiaboschi, io non suono da anni, però poi sei arrivato tu, hai cominciato a
fare domande e le mani improvvisamente… come dire, formicolano. Ho spolverato
il mio piano e ho suonato, come se il mio amico fosse ancora qui. Sai, non
finiva mai niente. Non faceva neanche i bozzetti… nulla. Prendeva il pennello e
via, aveva bisogno di dipingere. La
sua era fame. Ero più grande io, ma mi piaceva osservarlo. Noi non possiamo
capirlo, io non posso capirlo… però…
è l’arte Mangiaboschi… è come un demone…»
«Ora dov’è…?»
Il Vecchio continua a parlare, ormai
perso nei ricordi, «Abbiamo litigato… un fatto di soldi. Non potevano pagarmi,
erano in tre ed io li ho mandati via, mio nipote aveva appena cominciato con
questo lavoro, non volevo deluderlo. Per il denaro Mangiaboschi, solo per il
denaro ho cacciato l’unico amico che abbia mai avuto.»
«In tre?»
«Sì. Era sposato, la figlia ha pressappoco la tua età».
«Lei… ha l’indirizzo? Devo dargli una cosa che le appartiene».
Piano, tolgo le mattonelle che compongono la scritta, cercando di fare
attenzione a non scalfirle. Poi telefono al lavoro e mi prendo un giorno,
dicendo che ho una cacarella che mi spacca le budella.
Chiedo
la macchina ai miei.
«Vengo con te», mi dice Simone.
«Sto andando in Umbria, la strada è lunga…»
«Vengo lo stesso».
Il viaggio lo trascorriamo in silenzio,
un’ora e mezzo senza parlare, ognuno assorto nei suoi pensieri. Ogni tanto
guardo Simone che fuma una sigaretta dietro l’altra. Povero amico mio.
Superiamo il piccolo paesino diroccato e intraprendiamo una strada di
curve.
Eccoci, la campagna ci accoglie così, baciata dal sole, la primavera che
rende tutto verde.
Percorriamo una discesa su strada sterrata, superando una fattoria di
mucche.
Balle di fieno.
L’aria si fa fresca.
Il casolare è grande, di pietra, antico.
All’ingresso un’insegna in legno, scritta a mano, “Casa Famiglia”, è
scarabocchiato con noncuranza.
Ci accoglie un cane bianco grasso ma con
il muso simpatico.
Voci di bambini.
«Vieni?», chiedo a Simone.
«No, ti aspetto in macchina, vai tu…»
Gli sorrido, grazie, vorrei dire, ma si
sa, a noi maschi non escono le parole.
Supero il cancello in ferro battuto.
Tre quattro cinque bambini arrivano ad
accogliermi. «Chi sei?», mi domandano.
«Elia… sto cercando Anita…»
«È lì nell’orto, oltre la siepe».
Cammino in silenzio, inciampando due
volte sul brecciolino. I ragazzini ridono. Supero la siepe e la vedo, avrà
pressappoco la mia età. È chinata sulle ultime verdure invernali, indossa una
casacca sporca, logora. Ha i capelli biondi e lisci, quasi a caschetto,
tendente al castano. Gli occhi si increspano in un paio di rughe profonde,
sfumate dal sole, tre piccoli pianeti le nascono nelle pupille. Le sopracciglia
leggermente folte le incorniciano il volto, un volto che, appena mi vede, si
apre in un sorriso tenue, genuino.
«Ciao», mi dice.
«Ciao, io sono Elia».
«Io sono Anita, piacere…»
Rimaniamo in silenzio un attimo. Forse
dovrei dire qualcosa.
«È bello qui», sussurro.
«Hanno fatto tutto i miei… però la casa famiglia l’ho messa su io», dice
battendosi un colpo sul petto.
«È forte», rispondo sentendomi già stupido.
«Forte già. Mi piace stare con i bambini.»
Rimaniamo in silenzio. Un gatto miagola
in lontananza.
«Io… ecco, ho qualcosa che credo ti appartenga…»
Il viso di Anita per un attimo si fa
serio, mi fissa. «Ci conosciamo?», mi chiede.
«No, non personalmente… ma i tuoi genitori abitavano nel mio
appartamento, cioè, prima che ci abitassi io dico… mi sa che c’eri pure tu…»
La ragazza mi guarda, ha gli occhi
grandi e profondi.
«Ecco», dico allungando il fagotto.
Lo prende e lo scarta. Osserva le
mattonelle.
«Mettile in ordine», le suggerisco, la voce dolce.
Anita si china a terra e ricrea il
puzzle, come una bambina studiosa. Mi smarrisco un attimino, a guardarla così
concentrata. Già divertita del nuovo gioco.
Rimane ferma quando compone la scritta. Poi una lacrima veloce le riga
il viso. La scosta con le dita sporche di terra. Mi guarda, gli occhi lucidi.
Occhi che vorrei asciugare. «Grazie», sorride. «Mio padre ha lasciato tante
cose in giro…»
«Era nascosta dietro al frigorifero…»
«L’hai trovata…»
«Sì.»
«Sei venuto fin qua per questo?»
«Già. Volevo… non lo so. Però…»
«Curiosità forse…»
«Eh. Estrema. Dovevo capire chi era…»
«Ma mio padre non c’è più…»
«Però ci sei tu. Potresti raccontarmi, se ne hai voglia… adoro le
storie…»
«Eh… ma è lunga. Dobbiamo preparare il pranzo per i ragazzi. Vuoi
rimanere?»
«C’ho un amico in macchina».
«Chiama anche lui. C’è posto.»
«Okay».
«Vedi», mi dice indicandomi la casa famiglia, «su mio papà… ecco, potrei
cominciare così: Matteo mi ha insegnato a seguire i miei sogni, sempre e
comunque…»
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