lunedì 13 aprile 2015

LA SCRITTA [Parte 2]



[Nella puntata precedente (il raccontino della settimana scorsa): Elia trova una scritta, in seguito ai lavori in cucina, scarabocchiata sulle mattonelle: “La vita è bella perché è avariata, se è sempre quella che vita è?!”. La curiosità prende il sopravvento e le domande vengono poste: chi c’era prima di lui nell’appartamento? Chi ci viveva? Così comincia ad indagare  chiedendo in giro, al vicinato soprattutto. Scopre che un uomo, forse un artista, ha vissuto lì assieme alla moglie. Nel frattempo un’oscura presenza sembra seguirlo. Adesso bussa alla casa di Lola, la sua vicina, per chiedere informazioni].
  
LOLA
  Lola mi accoglie in vestaglia, mi saluta velocemente e mi fa entrare, guardando sul pianerottolo prima di chiudere la porta. L’appartamento di Lola è piccolo e ben curato. Ad ogni finestra sono appese decine di piante: margherite, gerani e cactus oblunghi. Le pareti sono colorate di un giallino tenue, rilassante, tendente all’arancione. Un grande televisore pavoneggia al centro del salotto, acceso ma senza volume, solo le figure sbiadite dei presentatori televisivi e delle vallette allampanate. Accanto alla tv c’è un piccolo comodino dove è posata una foto incorniciata, la foto ritrae un ragazzo solo, con lo sguardo imbronciato e con gli occhi di Lola. Un piccolo tappeto zebrato è posato a terra con finta noncuranza, sul tappeto ci sono un paio di pantofole a forma di tigre e un posacenere mezzo pieno. Poco più in là, appesi al muro, diciassette poster in miniatura di diciassette artisti diversi, tra questi: Klimt, Frida, Warhol, Rivera e qualche disegnatore brasiliano sconosciuto. La casa odora di incenso, un odore forte e persistente. Mi siedo sul divano, Lola fa lo stesso.
  «Mi ha detto Simone che hai ricominciato», mi fa.
  «Con cosa?»
  «Con le indagini».
  «Già. Ti avrà detto anche cosa sto cercando.»
  «Sì, sai che il tuo amico non sa tenersi i segreti».
  «Mica è un segreto».
  «Cosa ti incuriosisce tanto di Matteo?»
  «Di chi?»
  «Di Matteo… l’uomo che cerchi».
  «Non lo so, non lo so neanche io. Cioè, qui è così tutto ingarbugliato, un casino. E ‘sta scritta, da quando l’ho letta si ripete in continuazione, come se qualcuno me l’avesse stampata in testa, tipo un mantra».
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY (indicando Kundalini svaccata sul divano): Lo sapevo io! È tutta colpa tua!
KUNDALINI: M’avete detto voi di rimanere. Io me ne stavo tanto bene attorcigliata alla colonna vertebrale, dormiente, senza coscienza. Poi l’amico vostro m’ha svegliato e…
YOGI BHAJAN: …E questi esseri ti hanno corrotto. Tu! L’Illuminazione! La Potenza Sottile! Divinità fatta serpente! Dov’è finita la tua saggezza? Che fine ha fatto la sapienza che brama solo di uscire!?!
GRANDE PUFFO: Se l’è bevuta… un amaro dietro l’altro ed eccola lì, una larva cazzo.
YOGI BHAJAN: E’ colpa vostra…
MASTRO LINDO: Secondo me si deve curare, non è che conoscete una clinica, qualcosa… un posto carino… cioè, un centro di recupero insomma…
CHARLES BUKOWSKI: Tipo alcolisti anonimi…
IL CRICETO: Dovrebbe tornare attorno alla colonna vertebrale.
IL NEURONE: La ricordo ancora, creatrice di tutto, mia regina…
SIGMUND FREUD: Oh no, ha ricominciato, guardate…
KUNDALINI: La vita è bella perché è avariata, se è sempre quella che vita è?! La vita è bella perché è avariata, se è sempre quella che vita è?! La vita è bella perché è avariata, se è sempre quella che vita è?! La vita è bella perché è avariata, se è sempre quella che vita è?!
  Lola mi guarda. «Hai una sigaretta?»
  «Tabacco».
Adoro le unghie di Lola, come si posano sulla cartina ancora vergine.
  «Matteo, un grand’uomo. Zero pregiudizi, molto simpatico, compagno di bevute. Quando sono arrivata in Italia è stato uno dei primi ad aiutarmi, mi ha accolto subito come fossi una di famiglia. Uscivamo insieme, tutti e tre. Andavamo a bere in giro. Giuro, era una spugna, non ho mai visto nessuno ingurgitare così tanto alcol… e poi fumava, cazzo se fumava. C’aveva sempre la sigaretta in bocca. Ogni tanto veniva a dormire qui, quando litigavano… che poi dormire, mica dormiva, tipo tre ore a notte. Però russava come un turco. Ecco, si addormentava dove sei seduto adesso. La mattina mi faceva trovare la colazione pronta, assieme ad un biglietto. Lui non c’era mai, lasciava solo la puzza di tabacco. Guarda, vieni in camera mia…»
Seguo Lola in silenzio, mentre la notte scende piano e lenta, come se il tempo stesso si fosse fermato. Lola mi guarda, indicando un muro dipinto. Nel muro c’è un pianista disegnato, suona felice nel suo completo nero, comodamente seduto su un binario vuoto, mentre il tratteggio di un treno in lontananza compare sullo sfondo.
  «L’ha fatto lui. Disegnava ovunque, alle volte anche sulla carta igienica. Ah… era un gran signore, andava sempre a cena fuori, nonostante non avesse mai un euro in tasca… io non ho mai capito come facesse, però conosceva tutte le trattorie di Roma e tutti conoscevano lui. Credo li ripagasse con i disegni o lavando i piatti, però più con i dipinti. Hai presente le tovaglie di carta, quelle marroncine che mettono sui tavoli dei ristoranti?»
  «Sì».
  «Le riempiva di scarabocchi. Più beveva più disegnava. Poi si è iniziato a chiudere. Io provavo a parlarci ma niente, muto come un pesce. Avevano preso un casolare in campagna, tutto da rifare, una volta ci sono pure andata… una bellissima giornata di primavera. C’erano Matteo e la moglie che lavoravano, costruivano muri, mettevano a posto il soffitto, ristrutturavano il bagno. La casa, se la sono fatta tutta da soli… con loro non potevi mai stare con le mani in mano, per questo non andavo spesso a trovarli, mi si rompono le unghie a me. Stavano stretti a Roma e strettissimi a Trigoria. Hai presente Il Vecchio no? Litigavano ogni volta che si vedevano, non si sopportavano. Una volta pensa, si era sparsa la voce che Matteo e la sua donna coltivassero marijuana (il che non era del tutto errato) e qualcuno chiamò pure le guardie. Ho i miei sospetti. Mi sa che se ne sono andati per questo… cioè, non per l’erba, per Il Vecchio… e poi c’era la ragazzina…»
  «La ragazzina?»
  «Già… ma vieni, andiamo al K, lì lo conoscevano tutti…»
Il K è il locale di karaoke dove passiamo le serate Simone ed io quando rimaniamo a Trigoria. È popolato da strani freak tra cui: un nano, una ballerina di tango, un uomo in frac, un signore con una gamba sola, una donna con il rossetto sbafato, una zingara che legge i tarocchi, un gigante buono. Io lo adoro. Appena arrivati ordiniamo subito due birre doppio malto e un rum. Ci scoliamo tutto alla velocità della luce, poi di nuovo. Dal palco, nel frattempo, le esibizioni sono cominciate. C’è un gruppo di studenti che canta a squarciagola Rino Gaetano trotterellando sul posto. Guardo il barista, un uomo grande e grosso, e gli chiedo, lo sguardo classico della cospirazione internazionale: «Conosci Matteo?», già pronto ad allungargli cinque euro per l’informazione.
  «Bravo Elia, bella mossa…», mi dice Ganesh. «Così si comportano gli agenti segreti».
  «Matteo chi?»
  «L’artista», gli fa Lola. «Quello che abitava nel mio palazzo».
Il barista mi guarda, alzandosi le maniche della camicia. «Cosa vuoi sapere?», sussurra.
Mi avvicino, la musica a coprire le nostre voci. «Dov’è?»
  «È andato… guarda, questo l’ha fatto lui», mi risponde indicandomi una piccola scultura in ferro.
  «Cazzo è fichissimo».
  «Non dire parolacce. Comunque sì, è fichissimo. Sono tutti bulloni eh…»
  «Un pianista».
  «Già, dovresti trovarlo».
  «Chi?»
  «Il pianista, ne parlava sempre…»

  Lascio Lola al locale e torno a casa. Entrando mi blocco di colpo. Di nuovo la spiacevole sensazione di essere spiato. Ogni cosa rallenta, l’aria stessa rallenta. Mi guardo intorno, in silenzio. «C’è nessuno?», chiedo, la voce impastata dall’alcol.
  Solo il fischio del vento.
  «C’è nessuno?», ripeto.
Faccio le scale, aspettando ad ogni piano un uomo. Le porte stesse sembrano osservarmi. Una mosca ronza veloce sbattendo sui muri. La luce scricchiola. Da qualche parte qualcuno ride.

  Mi sveglio presto, la frase ripetuta ossessivamente.
Esco di fretta, voglio vedere l’alba. Nell’androne del palazzo mi blocco di colpo.
  Cos’è?
Il suono proviene da su.
È un piano.
  Corro.
  La milza scoppia.
  Il cuore martella.
Tre porte.
  Mi fermo.
La musica si blocca di colpo.
  Silenzio.
Veniva da…
  Provo a bussare.
Non risponde nessuno.

SIGMUND FREUD: Analizzando i fatti, crediamo infine che non abbia più elementi.
CARL GUSTAV JUNG: Come si suol dire, un punto morto.
KARL MARX: Un binario morto.
MICHAIL BAKUNIN: E così compagni la ricerca è conclusa?
GRANDE PUFFO: La signora lì, la Kundalini, non sarà mai sazia.
IL NEURONE: Nessuno sa dove sia finito questo Matteo.
SUPERSTELLINO DEGLI SNORKY: E la musica?
SIGNOR SPOCK: Chi abita al’ultimo piano?
IL NEURONE: Chi è il pianista?
YOGI BHAJAN: Mille domande, Amici & Amiche, che non troveranno mai risposta.
IL CRICETO: Siamo perduti dunque.
MASTRO LINDO: Costretti a sentire per sempre la lagna del serpente.
GRANDE PUFFO: Potremmo aprire un’altra boccia.
SIGMUND FREUD: O fare una canna.
JIM MORRISON: O provare i funghi che ha portato Ganesh.
CARL GUSTAV JUNG: Ecco, bell’idea… non sarebbe male.
MASTGRO LINDO: Ma una pulitina a ‘sto cesso una volta ogni tanto no eh?
YOGI BHAJAN: Fermi un attimo. Guardate, fate alzare lo sguardo ad Elia, cos’è quella?
  Alzo lo sguardo guardando il grande palazzo dove vivo. È lì, la finestra nera, coperta da un panno scuro. Chi ci abita? Un brivido mi percorre la schiena, dove mi sto spingendo? Accendo una sigaretta per rilassarmi continuando a guardare la tenda nera che ogni cosa copre.
  «Conta fino a dieci Elia, niente paranoie!», mi fa Ganesh
  «Lo so, ma qui non ci capisco più niente…»
  «Perché non usi più la sacra tecnica mistica dello ‘sti cazzi. Fu inventata tanto tempo fa, nelle montagne oscure del Tibet, da una setta di monaci eremiti, per superare le notti di ferro, in compagnia solo degli yeti. Aumenta la tua percezione stolto e vedrai che tutto passerà. Fai come il tuo coinquilino… rilassati.»
  «Non posso, c’ho ‘sto tarlo in testa…»
IL TARLO: Buongiorno!
IL CRICETO: Oh no, ci mancava solo lui!
IL TARLO: Io sono il Tarlo…
PIERO ANGELA: Ciao amico tarlo…
IL TARLO (ammiccando): E sono venuto in aiuto della Kundalini, per mangiare la capoccia del vostro adorato…
  «Che fissi?»
Mi volto, è Il Vecchio, l’uomo a cui sono costretto a dare i miei soldi ogni mese, colui che tutti odiano.
  «La finestra nera. Chi ci vive?»
  «Cosa vuoi sapere Mangiaboschi?»
Lui conosce! E se avesse rinchiuso Matteo nell’appartamento all’ultimo piano? E se un gruppo di serial killer dell’Isis l’avesse preso per torturarlo? O se peggio, le infermiere della clinica lo avessero costretto ad ingurgitare cibi macrobiotici e a bere solo succhi di frutta alla carota per sempre? E Matteo fosse impazzito, costretto ad una vita di stenti?
  «Battuto bene ti sei finora, mio vecchio Elia, affrontare le tue paure devi», mi fa Yoda di Guerre Stellari.
  «Chi suona il piano? Chi vive all’oscuro di tutto, nelle tenebre?», dico, cercando la Forza che è in me.
  «Bravo tu sei», annuisce Yoda.
  «Sono io Elia», mi risponde Il Vecchio.
  «Cosa?»
  «Io suono il piano», dice voltandosi.

  Mi giro sul letto, non riesco a dormire, devo sapere. Mi vesto di corsa ed esco, nel buio della notte.
  Salgo piano le scale senza far rumore. Di nuovo la sensazione di essere osservato.
  Sono su, all’ultimo piano, davanti l’appartamento del Vecchio. Allungo l’orecchio, solo il ticchettio della pioggia a farmi compagnia.
  Ancora. Qualcuno mi spia.
Passi.
Più veloci.
Vengono da giù, dal piano di sotto.
  Chiamo l’ascensore.
  Tack tack tack
Il cuore scoppia.
  Una mano mi afferra.
  È scheletrica e magra, le vene esplodono fuori, contorcendosi in mille rivoli di sangue.
  Mi giro. È Il Vecchio.
  «È lei a seguirmi?», chiedo, la voce spezzata dalla paura.
  «L’artista», mi dice, «non dovresti cercarlo. È passato. A cosa ti serve sapere dov’è?»
  «Il pianista…»
  «Sono io. Matteo amava ritrarmi e a me piaceva. Mi metteva ovunque, diceva che ero il suo personaggio. Ero in tutti i suoi dipinti, a casa ne ho tantissimi…»
  «Posso… vederli?»
  «No. Sono miei, il ricordo di un amico. Non li mostro a nessuno, neanche a mio nipote. È un mio segreto, uno dei pochi. Lo so sai? So cosa pensate di me, tutti quanti. Vi prendo i soldi… adoro il denaro. Ma da giovane, ero più piccolo di te, suonavo. Pensa, volevo entrare nell’orchestra… poi i sogni non si avverano mai e sono finito a lavorare per mio nipote, dopo aver passato una vita in banca. Sai cosa adoravo di Matteo? La sua passione, l’amore incondizionato per l’arte, il non poter stare senza un pennello. Aveva un caratteraccio però era unico. Amava. Ogni cosa, ogni istante. Tutto per lui era grande, i sentimenti, le paure, le ansie. Spropositato quasi, come un’adolescente. E anche questo lo rendeva bello. Con lui parlavano tutti e vedi… Matteo entrava nei tuoi problemi, così tanto da star male. Ogni tanto scriveva delle lettere, altre volte buttava tutto all’aria. Anche la sua vita, l’ha gettata al vento. Quando però lo osservavi dipingere, la sigaretta in bocca e il bicchiere accanto, potevi perderti. Lui era perso. I suoi occhi Mangiaboschi brillavano. Se ne andava da altre parti, correva nei suoi disegni, nei campi appena coltivati o nei matrimoni di paese, fuggiva da qui, adorava rappresentare la parte del quadro non esposta alla luce, quella tratteggiata male, non finita. Era la sua fuga. Un tram, un suonatore di violino, una grassa donna nuda, due ballerini, la figlia. I veri artisti sono così. Io non lo sono, non lo sono mai stato. Però con Matteo mi divertivo a posare. Lui mi guardava e mi tratteggiava, rendendomi parte di sé. Mangiaboschi, io non suono da anni, però poi sei arrivato tu, hai cominciato a fare domande e le mani improvvisamente… come dire, formicolano. Ho spolverato il mio piano e ho suonato, come se il mio amico fosse ancora qui. Sai, non finiva mai niente. Non faceva neanche i bozzetti… nulla. Prendeva il pennello e via, aveva bisogno di dipingere. La sua era fame. Ero più grande io, ma mi piaceva osservarlo. Noi non possiamo capirlo, io non posso capirlo… però… è l’arte Mangiaboschi… è come un demone…»
  «Ora dov’è…?»
Il Vecchio continua a parlare, ormai perso nei ricordi, «Abbiamo litigato… un fatto di soldi. Non potevano pagarmi, erano in tre ed io li ho mandati via, mio nipote aveva appena cominciato con questo lavoro, non volevo deluderlo. Per il denaro Mangiaboschi, solo per il denaro ho cacciato l’unico amico che abbia mai avuto.»
  «In tre?»
  «Sì. Era sposato, la figlia ha pressappoco la tua età».
  «Lei… ha l’indirizzo? Devo dargli una cosa che le appartiene».

  Piano, tolgo le mattonelle che compongono la scritta, cercando di fare attenzione a non scalfirle. Poi telefono al lavoro e mi prendo un giorno, dicendo che ho una cacarella che mi spacca le budella.
  Chiedo la macchina ai miei.
  «Vengo con te», mi dice Simone.
  «Sto andando in Umbria, la strada è lunga…»
  «Vengo lo stesso».
Il viaggio lo trascorriamo in silenzio, un’ora e mezzo senza parlare, ognuno assorto nei suoi pensieri. Ogni tanto guardo Simone che fuma una sigaretta dietro l’altra. Povero amico mio.
  Superiamo il piccolo paesino diroccato e intraprendiamo una strada di curve.
  Eccoci, la campagna ci accoglie così, baciata dal sole, la primavera che rende tutto verde.
  Percorriamo una discesa su strada sterrata, superando una fattoria di mucche.
  Balle di fieno.
L’aria si fa fresca.
  Il casolare è grande, di pietra, antico.
  All’ingresso un’insegna in legno, scritta a mano, “Casa Famiglia”, è scarabocchiato con noncuranza.
Ci accoglie un cane bianco grasso ma con il muso simpatico.
  Voci di bambini.
  «Vieni?», chiedo a Simone.
  «No, ti aspetto in macchina, vai tu…»
Gli sorrido, grazie, vorrei dire, ma si sa, a noi maschi non escono le parole.
  Supero il cancello in ferro battuto.
Tre quattro cinque bambini arrivano ad accogliermi. «Chi sei?», mi domandano.
  «Elia… sto cercando Anita…»
  «È lì nell’orto, oltre la siepe».
Cammino in silenzio, inciampando due volte sul brecciolino. I ragazzini ridono. Supero la siepe e la vedo, avrà pressappoco la mia età. È chinata sulle ultime verdure invernali, indossa una casacca sporca, logora. Ha i capelli biondi e lisci, quasi a caschetto, tendente al castano. Gli occhi si increspano in un paio di rughe profonde, sfumate dal sole, tre piccoli pianeti le nascono nelle pupille. Le sopracciglia leggermente folte le incorniciano il volto, un volto che, appena mi vede, si apre in un sorriso tenue, genuino.
  «Ciao», mi dice.
  «Ciao, io sono Elia».
  «Io sono Anita, piacere…»
Rimaniamo in silenzio un attimo. Forse dovrei dire qualcosa.
  «È bello qui», sussurro.
  «Hanno fatto tutto i miei… però la casa famiglia l’ho messa su io», dice battendosi un colpo sul petto.
  «È forte», rispondo sentendomi già stupido.
  «Forte già. Mi piace stare con i bambini.»
Rimaniamo in silenzio. Un gatto miagola in lontananza.   
  «Io… ecco, ho qualcosa che credo ti appartenga…»
Il viso di Anita per un attimo si fa serio, mi fissa. «Ci conosciamo?», mi chiede.
  «No, non personalmente… ma i tuoi genitori abitavano nel mio appartamento, cioè, prima che ci abitassi io dico… mi sa che c’eri pure tu…»
La ragazza mi guarda, ha gli occhi grandi e profondi.
  «Ecco», dico allungando il fagotto.
Lo prende e lo scarta. Osserva le mattonelle.
  «Mettile in ordine», le suggerisco, la voce dolce.
Anita si china a terra e ricrea il puzzle, come una bambina studiosa. Mi smarrisco un attimino, a guardarla così concentrata. Già divertita del nuovo gioco.
  Rimane ferma quando compone la scritta. Poi una lacrima veloce le riga il viso. La scosta con le dita sporche di terra. Mi guarda, gli occhi lucidi. Occhi che vorrei asciugare. «Grazie», sorride. «Mio padre ha lasciato tante cose in giro…»
  «Era nascosta dietro al frigorifero…»
  «L’hai trovata…»
  «Sì.»
  «Sei venuto fin qua per questo?»
  «Già. Volevo… non lo so. Però…»
  «Curiosità forse…»
  «Eh. Estrema. Dovevo capire chi era…»
  «Ma mio padre non c’è più…»
  «Però ci sei tu. Potresti raccontarmi, se ne hai voglia… adoro le storie…»
  «Eh… ma è lunga. Dobbiamo preparare il pranzo per i ragazzi. Vuoi rimanere?»
  «C’ho un amico in macchina».
  «Chiama anche lui. C’è posto.»
  «Okay».
  «Vedi», mi dice indicandomi la casa famiglia, «su mio papà… ecco, potrei cominciare così: Matteo mi ha insegnato a seguire i miei sogni, sempre e comunque…»

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