Io ho un vecchio frigorifero giallo che è bellissimo. Tutto rotto, molto
rovinato, è stato donato alla casa dai miei genitori. Prima era loro e quando
ero bimbetto ci congelavo i pupazzi, immergendoli in bianchi bicchieri di
plastica e poi mettendoli nel freezer per quattro ore. Adoravo congelare
soprattutto gli Exogini. Grazie al frigorifero giallo, sempre da ragazzino,
facevo gli esperimenti: prendevo farina, pangrattato, detersivo, sapone per i
piatti, zucchero, varechina, olio per friggere e mescolavo il tutto. Alle
volte, quando il fumo usciva, mi sentivo un vero stregone, tipo quello di
Fantasia, il film della Disney, ma non ero il topaccio stronzo, macché, ero il
grande mago io, il vecchio insomma. Quando l’intruglio era pronto lo mettevo in
frigo per vedere cosa sarebbe successo. Una volta, grazie a potenti reazioni
chimiche, la bomba che avevo creato era stata micidiale, con tanto di fuochi
d’artificio sparsi in cucina e mura imbrattate di rosso. Ah! Amici & Amiche, che felicità! Potevo finalmente combattere
la guerra contro gli sporchi capitalisti, oppressori dell’umanità e
dell’universo intero! Però papà e mamma non erano stati così felici, ché
avevano dovuto ripulire tutto con stracci e straccetti e comunque un paio di
aloni si vedono ancora oggi, monoliti di un tempo passato.
Il vecchio frigorifero giallo esiste dagli anni settanta o forse dai
primi ottanta e i miei genitori ne andavano tanto fieri, del grande cubo che
tutto può. Lo guardavano, lo ricordo come fosse ieri, con reverenda ammirazione
ed io sospettavo che di notte, nel buio, quando dormivo, ci facessero dei sabba
davanti, assieme ai compagni di sezione, invocando il dio Marx e chiedendo
clemenza per i peccati commessi. Poteva tutto il frigorifero giallo. Ogni
alimento era fresco e le bibite avevano un sapore più buono. A cinque anni,
preso da un caldo micidiale, mi ci infilai dentro, togliendo ogni singolo
ripiano d’acciaio, e lì rimasi per almeno due ore.
Il vecchio frigorifero giallo mi ha tenuto compagnia alle medie, quando
ormai non infilavo più i pupazzetti nella sua pancia e le ere glaciali erano
già un ricordo relegato al tempo dell’infanzia, di quando ancora credi che la
salvezza della galassia intera dipenda da te.
Però il vecchio frigorifero giallo ogni tanto si rompeva e allora veniva
il frigorista il cui motto era “Professionista della tecnologia del freddo!”,
un uomo grande e grosso con folti baffi ad incorniciare il viso. «Vuoi
vedere?», mi diceva con le pinze in mano. Io annuivo, desideroso di imparare
nuovi mestieri, ormai deluso dalla realtà della vita dell’operaio, il lavoro di
papà, e indeciso sempre di più se abbandonare il grande sogno di aprirmi
un’edicola tutta mia.
“Casomai faccio il frigorista”, pensavo quasi convinto. In fondo, se lo
scopo era quello di aiutare il mondo, aggiustare un frigo non era una malvagia
idea. Sarei stato il paladino delle casalinghe di Voghera, giungendo spavaldo
nei paesi sperduti dell’Italia rurale. Certo, avrei dovuto abbandonare la
metropoli ma in fondo, ormai, Roma e Magliana mi stavano strette e uscire dalla
borgata mi sembrava una buona idea. Così, armato di santa pazienza, seguivo il
Super Mario (che lo so che è un idraulico ma a me ‘sto tizio sembrava proprio
Super Mario) nelle sue mirabolanti peripezie e quando il frigorifero
-soprattutto il reparto freezer- era stato aggiustato lo guardavo con
ammirazione, ammiccando.
Il reparto freezer ha sempre avuto seri
problemi. Il ghiaccio, ogni sei mesi, invade tutto il macchinario e goccia
prepotente sul cibo, creando muffa e strane forme di vita. A me piaceva, anche
al liceo, osservare quell’unico blocco freddo, bellissimo, gelido e potente. Se
l’avessimo lasciato fare il ghiaccio avrebbe avvolto ogni cosa, forse anche la
casa intera. A sette anni, al quinto mese, quando ormai il bianco copriva
prepotente tutto, infilavo di nascosto dei pupazzi (sempre gli Exogini) e li
riprendevo dopo trenta giorni, quando i miei mettevano gli stracci per terra e
toglievano ogni cosa dal frigorifero, per avviare quella che dai più veniva definita
come La Due Giorni Senza Frigorifero Giallo.
Al liceo, quando papà e mamma partivano ed io facevo le prime feste
illegali, in trentadue dentro casa mia che è un buco, usavamo il grande blocco
di ghiaccio per preparare i cocktail e i mojito che ne uscivano erano prelibati
e parecchio alcolici. Le ragazze, quelle di quattordici anni, mi guardavano
tutte entusiaste, osservando con che maestria scalfivo il ghiaccio, armato di
scalpello artistico usato per levigare il legno. Dopo un po’, nel buio della cameretta,
le stesse ragazze, ubriache fino al midollo, si concedevano alle mie lusinghe,
giocando con me e ricordando il grande blocco del frigorifero giallo, emblema
stesso delle serate alcoliche e delle prime indimenticabili bicchierate tra
amici.
Oggi il frigorifero giallo troneggia nella mia cucina, nel triste
appartamento di Trigoria, dimenticata periferia romana. È sempre lì, bellissimo
e pieno di adesivi, flyer e magneti; ricordi di feste andate, di cortei
memorabili e di lontane località turistiche. In basso a destra c’è anche
appiccicato il volantino della pizzeria, quello che recita: “La tua pizza in
cinque minuti, direttamente a casa tua! Ordine minimo dieci euro, crocchetta in
omaggio”. Io lo adoro e ancora adesso, ogni tanto, se avessi un exogino lo
infilerei nel freezer per vedere cosa succede. Eravamo precursori noi, e
qualche bastardo di una qualche multinazionale giapponese deve averci rubato
anche l’idea, ché poi sono usciti quei pupazzetti del cazzo a forma di
cavallini che se li metti in frigo per due ore cambiano colore.
Però, quando l’urlo di Simone (il mio coinquilino) mi sveglia, rimango
per un attimo pietrificato.
Dovrei alzarmi, lo so. E anche Ganesh me lo dice: «Dovresti alzarti
umano, vedere quel che è successo. Casomai, e sussurro casomai, il mondo è finito, c’è stata l’apocalisse e solo tu e il
tuo amico siete sopravvissuti, scorie mutanti e vermi giganti, costretti a
mangiare le vostre stesse feci, ascoltando ventiquattro ore su ventiquattro le
canzoni di Gianni Morandi».
«Non toccarmi Gianni Morandi, sai che da un po’ di tempo a questa parte
è diventato il mio mito, ma che dico… il mito di tutti noi! Di un’intera
generazione di giovani di sinistra! Attratti dalle inconfutabili parole
pronunciate dal cantante!»
Mi alzo svogliato, grattandomi l’ascella sinistra.
Il mio vecchio frigorifero giallo è lì,
impavido nella cucina, e ogni volta che lo vedo i ricordi affiorano. Ci sono i
flyer ad esempio, la grafica sempre bellissima e il flashback della nottata
passata sotto cassa, il fischio prepotente e il martellare dei tamburi. Quando
lo comprarono, i miei genitori, erano tutti contenti, mi raccontavano la storia
ogni volta, ammirando i bordi lucidi, di un giallo perfetto. «È stato il nostro
primo acquisto, solo nostro, per questa casa. Comprare il frigo è tipo l’unione
della coppia», annuiva papà accarezzando il metallo.
Io anche lo amo il mio vecchio frigorifero giallo. Anche ora che il
blocco di ghiaccio si è espanso su ogni cosa, compreso il reparto frutta.
«Cazzo», dico, «ma è tutto congelato».
«Dobbiamo buttarlo ‘sto coso! Vedi che fa?»
«Buttarlo?», grida Ganesh, «Ogni ricordo andrà perduto! Bloccalo, finché
sei in tempo!»
«Giammai coinquilino!»
«Elia, cresci. Ogni sei mesi è la stessa storia!», controbatte Simone.
«Il frigorifero è un ricordo della mia infanzia… fuori lui, fuori me!
Dovrai trovarti un altro pagaffitto! Rimarrai solo in questa casa troppo
grande! Morirai qui e nessuno si renderà conto della tua assenza!»
Osservo il frigorifero giallo e il grandioso
blocco di ghiaccio. È unico, se un artista lo vedesse sicuro verrebbe ripreso
come opera d’arte concettuale ed esposto al MAXXI. O all’Expo, riflettendo.
«Sublime opera di stampo pop», mi fa Andy Warhol, «riflette la società
del consumo, lo spreco costante e continuo di cibo, le disuguaglianze tra la
corrotta società del potere e il terzo mondo. All’Expo farebbe la sua porca
figura, accanto al reparto della Coca-Cola. Potrebbe addirittura diventare il
simbolo della fiera e tu, finalmente, saresti ricco».
«‘Scolta a me socio», dico a Simone, «con tutto ‘sto ghiaccio ci
acchittiamo ‘na festa da paura. Prendiamo gli stracci su, che la gente
pagherebbe per avere un frigorifero del genere».
Il coinquilino mi guarda, fa no no con la testa ma esegue i miei ordini,
ringalluzzito, anche se non lo ammetterà mai, dalla prospettiva del party
casalingo.
Il mio vecchio frigorifero giallo c’ha ‘sto problema del ghiaccio, è
vero, ma è pur sempre lo stemma di famiglia ed io, Compagni & Compagne, me
lo porterò appresso fino alla tomba.
«Oggi ci lascia Elia Mangiaboschi», dirà il prete sbattezzato,
«difensore degli ultimi e degli oppressi, grande scrittore e uomo dai sani
principi. E con lui ci lascia anche il vecchio frigorifero giallo dentro cui
Elia verrà sepolto. Amen.»
Posizioniamo gli stracci a terra, sotto al frigorifero, in attesa
dell’allagamento. Poi stacchiamo la spina, prendiamo lo zaino frigo e, armati
di santa pazienza, strappiamo al ghiaccio il poco cibo supersite.
«Da adesso in poi», dico, «comincia La Due Giorni Senza Frigorifero
Giallo.»
Simone alza gli occhi al cielo, «Come faremo? Costretti ad un ramadan
forzato!»
Ma io non l’ascolto, già pronto ad
organizzare la Grande Festa del Ghiaccio.
«Chiama tutti Simone: amici, conoscenti, vicini di casa (solo quelli
simpatici), attaccati a internet, invia mail, usa i social network. Entro
stasera dobbiamo aver fatto tutto».
«Bravo Elia, condottiero dei mille mari», sorride Ganesh.
Quando giunge la notte la festa è grande, memorabile, unica. Le casse
sparano musica e i vicini già bussano; la gente balla, qualcuno pomicia sul
divano, qualcun altro rolla una canna da passare ai proprietari di casa. Chi
parla lo fa forte; si ride e si scherza. Ci sono i vecchi compagni di sbronze,
i nuovi amici, le ragazze un tempo amate, quelle ancora non amate. C’è il
nostro mondo, quello con cui si è diviso il banco di scuola e lo spinello
illegale fumato al cesso, durante l’ora di chimica. C’è Lola, la nostra vicina
di casa e alcuni soggetti poco raccomandabili del locale di karaoke che
frequentiamo da qualche mese. Ci sono due gatti sbucati da chissà dove e c’è
Antonio che prepara cicchetti da far invidia al cervo dello Jӓgermeister; c’è
un gruppo di vecchi freakettoni in tenuta antisommossa che ride e scherza e
prova a vendere perline a otto centesimi; c’è Mohammed che non beve e non fuma
e si domanda cosa ci fa qui; c’è Alessia, la mia compagna di liceo, amica
storica, così diversa da quando ti ho conosciuta, eppure sempre uguale, anche
tra settant’anni a parlare fitti fitti, il mondo che scompare; ci sono alcuni
soci della borgata mia, di Magliana, che se la ridono tra i denti, troppo
ubriachi per commentare; c’è tutta la vecchia guardia dell’Elephant pub che
ormai ha chiuso da tempo ed è diventato un triste ristorante per tristi figuri,
c’è un gruppetto di raver che confabula e dieci intellettuali che discutono di
libri e film coreani. C’è Manolo che gracchia con Luisa di politica e massimi
sistemi. E poi c’è lei, Anita, scesa dalla campagna, che parla con le persone e
ride e scherza, divertita dalla metropoli e dalle luci e che mi guarda, solo
ogni tanto, e mi sorride. Tutti, ma proprio tutti, osservano il sacro blocco di
ghiaccio, ammirando la sua perfezione. Osservano anche me a dirla tutta,
davanti al vecchio frigorifero giallo, ubriaco al punto giusto, la sigaretta
sbracata in bocca, scalfire il monolite con il vecchio strumento del liceo, il
magico scalpello. Mi guardano, scrutando la maglietta bagnata e il muscolo che
si tende. E poi dicono con voce acuta, «Viva il frigorifero giallo, amico di
infanzia e ricordo di tempi andati!»
Due
giorni dopo
Ora in casa non c’è nessuno. Io sono al lavoro e Simone pure. C’è
silenzio, un silenzio incredibile, giusto il plick plick delle gocce. Il grande blocco di ghiaccio è sciolto.
Poi un suono improvviso, strisciante.
Adesso il frigo è aperto, lo sportello
mostra il mondo sciolto.
Guardate.
Qualcosa si muove.
Di nuovo, il suono veloce,
impercettibile quasi.
Osservate meglio.
Una bocca si apre, piccola e minuscola.
La cosa striscia.
Un tempo ibernata.
Si toglie di dosso le gocce d’acqua.
Cos’è?
Lo vedete, non è vero?
Non è solo.
Altri come lui.
«Vendetta», sussurrano tremando, «vendetta…»
Piccole lingue.
Occhi spalancati.
Il corpo bianco, viscido, squamoso quasi.
Non tiratevi indietro, abbiate coraggio.
Loro sono lì.
I vermi studiano il mondo, un moto di
rabbia prende il sopravvento. Poi escono dal vecchio frigorifero giallo
strisciando, la piccola scia di umido lasciata a ricordo della famiglia
sterminata.
Osservano la casa, il piccolo appartamento rovinato dalla festa, le
bottiglie ancora a terra e si appostano, in attesa del ritorno degli ignari
umani.
«Vendetta», ripetono sanguinanti.
Se vuoi scoprire perché i vermi vogliono vendicarsi (soprattutto con Simone ad essere onesti) leggiti:
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