lunedì 22 giugno 2015

IL MIO VECCHIO FRIGORIFERO GIALLO



  Io ho un vecchio frigorifero giallo che è bellissimo. Tutto rotto, molto rovinato, è stato donato alla casa dai miei genitori. Prima era loro e quando ero bimbetto ci congelavo i pupazzi, immergendoli in bianchi bicchieri di plastica e poi mettendoli nel freezer per quattro ore. Adoravo congelare soprattutto gli Exogini. Grazie al frigorifero giallo, sempre da ragazzino, facevo gli esperimenti: prendevo farina, pangrattato, detersivo, sapone per i piatti, zucchero, varechina, olio per friggere e mescolavo il tutto. Alle volte, quando il fumo usciva, mi sentivo un vero stregone, tipo quello di Fantasia, il film della Disney, ma non ero il topaccio stronzo, macché, ero il grande mago io, il vecchio insomma. Quando l’intruglio era pronto lo mettevo in frigo per vedere cosa sarebbe successo. Una volta, grazie a potenti reazioni chimiche, la bomba che avevo creato era stata micidiale, con tanto di fuochi d’artificio sparsi in cucina e mura imbrattate di rosso. Ah! Amici & Amiche, che felicità! Potevo finalmente combattere la guerra contro gli sporchi capitalisti, oppressori dell’umanità e dell’universo intero! Però papà e mamma non erano stati così felici, ché avevano dovuto ripulire tutto con stracci e straccetti e comunque un paio di aloni si vedono ancora oggi, monoliti di un tempo passato.
  Il vecchio frigorifero giallo esiste dagli anni settanta o forse dai primi ottanta e i miei genitori ne andavano tanto fieri, del grande cubo che tutto può. Lo guardavano, lo ricordo come fosse ieri, con reverenda ammirazione ed io sospettavo che di notte, nel buio, quando dormivo, ci facessero dei sabba davanti, assieme ai compagni di sezione, invocando il dio Marx e chiedendo clemenza per i peccati commessi. Poteva tutto il frigorifero giallo. Ogni alimento era fresco e le bibite avevano un sapore più buono. A cinque anni, preso da un caldo micidiale, mi ci infilai dentro, togliendo ogni singolo ripiano d’acciaio, e lì rimasi per almeno due ore.
  Il vecchio frigorifero giallo mi ha tenuto compagnia alle medie, quando ormai non infilavo più i pupazzetti nella sua pancia e le ere glaciali erano già un ricordo relegato al tempo dell’infanzia, di quando ancora credi che la salvezza della galassia intera dipenda da te.
  Però il vecchio frigorifero giallo ogni tanto si rompeva e allora veniva il frigorista il cui motto era “Professionista della tecnologia del freddo!”, un uomo grande e grosso con folti baffi ad incorniciare il viso. «Vuoi vedere?», mi diceva con le pinze in mano. Io annuivo, desideroso di imparare nuovi mestieri, ormai deluso dalla realtà della vita dell’operaio, il lavoro di papà, e indeciso sempre di più se abbandonare il grande sogno di aprirmi un’edicola tutta mia.
  “Casomai faccio il frigorista”, pensavo quasi convinto. In fondo, se lo scopo era quello di aiutare il mondo, aggiustare un frigo non era una malvagia idea. Sarei stato il paladino delle casalinghe di Voghera, giungendo spavaldo nei paesi sperduti dell’Italia rurale. Certo, avrei dovuto abbandonare la metropoli ma in fondo, ormai, Roma e Magliana mi stavano strette e uscire dalla borgata mi sembrava una buona idea. Così, armato di santa pazienza, seguivo il Super Mario (che lo so che è un idraulico ma a me ‘sto tizio sembrava proprio Super Mario) nelle sue mirabolanti peripezie e quando il frigorifero -soprattutto il reparto freezer- era stato aggiustato lo guardavo con ammirazione, ammiccando.
   Il reparto freezer ha sempre avuto seri problemi. Il ghiaccio, ogni sei mesi, invade tutto il macchinario e goccia prepotente sul cibo, creando muffa e strane forme di vita. A me piaceva, anche al liceo, osservare quell’unico blocco freddo, bellissimo, gelido e potente. Se l’avessimo lasciato fare il ghiaccio avrebbe avvolto ogni cosa, forse anche la casa intera. A sette anni, al quinto mese, quando ormai il bianco copriva prepotente tutto, infilavo di nascosto dei pupazzi (sempre gli Exogini) e li riprendevo dopo trenta giorni, quando i miei mettevano gli stracci per terra e toglievano ogni cosa dal frigorifero, per avviare quella che dai più veniva definita come La Due Giorni Senza Frigorifero Giallo.
  Al liceo, quando papà e mamma partivano ed io facevo le prime feste illegali, in trentadue dentro casa mia che è un buco, usavamo il grande blocco di ghiaccio per preparare i cocktail e i mojito che ne uscivano erano prelibati e parecchio alcolici. Le ragazze, quelle di quattordici anni, mi guardavano tutte entusiaste, osservando con che maestria scalfivo il ghiaccio, armato di scalpello artistico usato per levigare il legno. Dopo un po’, nel buio della cameretta, le stesse ragazze, ubriache fino al midollo, si concedevano alle mie lusinghe, giocando con me e ricordando il grande blocco del frigorifero giallo, emblema stesso delle serate alcoliche e delle prime indimenticabili bicchierate tra amici.
  Oggi il frigorifero giallo troneggia nella mia cucina, nel triste appartamento di Trigoria, dimenticata periferia romana. È sempre lì, bellissimo e pieno di adesivi, flyer e magneti; ricordi di feste andate, di cortei memorabili e di lontane località turistiche. In basso a destra c’è anche appiccicato il volantino della pizzeria, quello che recita: “La tua pizza in cinque minuti, direttamente a casa tua! Ordine minimo dieci euro, crocchetta in omaggio”. Io lo adoro e ancora adesso, ogni tanto, se avessi un exogino lo infilerei nel freezer per vedere cosa succede. Eravamo precursori noi, e qualche bastardo di una qualche multinazionale giapponese deve averci rubato anche l’idea, ché poi sono usciti quei pupazzetti del cazzo a forma di cavallini che se li metti in frigo per due ore cambiano colore.
  Però, quando l’urlo di Simone (il mio coinquilino) mi sveglia, rimango per un attimo pietrificato.
  Dovrei alzarmi, lo so. E anche Ganesh me lo dice: «Dovresti alzarti umano, vedere quel che è successo. Casomai, e sussurro casomai, il mondo è finito, c’è stata l’apocalisse e solo tu e il tuo amico siete sopravvissuti, scorie mutanti e vermi giganti, costretti a mangiare le vostre stesse feci, ascoltando ventiquattro ore su ventiquattro le canzoni di Gianni Morandi».
  «Non toccarmi Gianni Morandi, sai che da un po’ di tempo a questa parte è diventato il mio mito, ma che dico… il mito di tutti noi! Di un’intera generazione di giovani di sinistra! Attratti dalle inconfutabili parole pronunciate dal cantante!»
  Mi alzo svogliato, grattandomi l’ascella sinistra.
Il mio vecchio frigorifero giallo è lì, impavido nella cucina, e ogni volta che lo vedo i ricordi affiorano. Ci sono i flyer ad esempio, la grafica sempre bellissima e il flashback della nottata passata sotto cassa, il fischio prepotente e il martellare dei tamburi. Quando lo comprarono, i miei genitori, erano tutti contenti, mi raccontavano la storia ogni volta, ammirando i bordi lucidi, di un giallo perfetto. «È stato il nostro primo acquisto, solo nostro, per questa casa. Comprare il frigo è tipo l’unione della coppia», annuiva papà accarezzando il metallo.
  Io anche lo amo il mio vecchio frigorifero giallo. Anche ora che il blocco di ghiaccio si è espanso su ogni cosa, compreso il reparto frutta.
  «Cazzo», dico, «ma è tutto congelato».
  «Dobbiamo buttarlo ‘sto coso! Vedi che fa?»
  «Buttarlo?», grida Ganesh, «Ogni ricordo andrà perduto! Bloccalo, finché sei in tempo!»
  «Giammai coinquilino!»
  «Elia, cresci. Ogni sei mesi è la stessa storia!», controbatte Simone.
  «Il frigorifero è un ricordo della mia infanzia… fuori lui, fuori me! Dovrai trovarti un altro pagaffitto! Rimarrai solo in questa casa troppo grande! Morirai qui e nessuno si renderà conto della tua assenza!»
Osservo il frigorifero giallo e il grandioso blocco di ghiaccio. È unico, se un artista lo vedesse sicuro verrebbe ripreso come opera d’arte concettuale ed esposto al MAXXI. O all’Expo, riflettendo.
  «Sublime opera di stampo pop», mi fa Andy Warhol, «riflette la società del consumo, lo spreco costante e continuo di cibo, le disuguaglianze tra la corrotta società del potere e il terzo mondo. All’Expo farebbe la sua porca figura, accanto al reparto della Coca-Cola. Potrebbe addirittura diventare il simbolo della fiera e tu, finalmente, saresti ricco».
  «‘Scolta a me socio», dico a Simone, «con tutto ‘sto ghiaccio ci acchittiamo ‘na festa da paura. Prendiamo gli stracci su, che la gente pagherebbe per avere un frigorifero del genere».
  Il coinquilino mi guarda, fa no no con la testa ma esegue i miei ordini, ringalluzzito, anche se non lo ammetterà mai, dalla prospettiva del party casalingo.
  Il mio vecchio frigorifero giallo c’ha ‘sto problema del ghiaccio, è vero, ma è pur sempre lo stemma di famiglia ed io, Compagni & Compagne, me lo porterò appresso fino alla tomba.
  «Oggi ci lascia Elia Mangiaboschi», dirà il prete sbattezzato, «difensore degli ultimi e degli oppressi, grande scrittore e uomo dai sani principi. E con lui ci lascia anche il vecchio frigorifero giallo dentro cui Elia verrà sepolto. Amen.»
  Posizioniamo gli stracci a terra, sotto al frigorifero, in attesa dell’allagamento. Poi stacchiamo la spina, prendiamo lo zaino frigo e, armati di santa pazienza, strappiamo al ghiaccio il poco cibo supersite.
  «Da adesso in poi», dico, «comincia La Due Giorni Senza Frigorifero Giallo.»
  Simone alza gli occhi al cielo, «Come faremo? Costretti ad un ramadan forzato!»
Ma io non l’ascolto, già pronto ad organizzare la Grande Festa del Ghiaccio.
  «Chiama tutti Simone: amici, conoscenti, vicini di casa (solo quelli simpatici), attaccati a internet, invia mail, usa i social network. Entro stasera dobbiamo aver fatto tutto».
  «Bravo Elia, condottiero dei mille mari», sorride Ganesh.

  Quando giunge la notte la festa è grande, memorabile, unica. Le casse sparano musica e i vicini già bussano; la gente balla, qualcuno pomicia sul divano, qualcun altro rolla una canna da passare ai proprietari di casa. Chi parla lo fa forte; si ride e si scherza. Ci sono i vecchi compagni di sbronze, i nuovi amici, le ragazze un tempo amate, quelle ancora non amate. C’è il nostro mondo, quello con cui si è diviso il banco di scuola e lo spinello illegale fumato al cesso, durante l’ora di chimica. C’è Lola, la nostra vicina di casa e alcuni soggetti poco raccomandabili del locale di karaoke che frequentiamo da qualche mese. Ci sono due gatti sbucati da chissà dove e c’è Antonio che prepara cicchetti da far invidia al cervo dello Jӓgermeister; c’è un gruppo di vecchi freakettoni in tenuta antisommossa che ride e scherza e prova a vendere perline a otto centesimi; c’è Mohammed che non beve e non fuma e si domanda cosa ci fa qui; c’è Alessia, la mia compagna di liceo, amica storica, così diversa da quando ti ho conosciuta, eppure sempre uguale, anche tra settant’anni a parlare fitti fitti, il mondo che scompare; ci sono alcuni soci della borgata mia, di Magliana, che se la ridono tra i denti, troppo ubriachi per commentare; c’è tutta la vecchia guardia dell’Elephant pub che ormai ha chiuso da tempo ed è diventato un triste ristorante per tristi figuri, c’è un gruppetto di raver che confabula e dieci intellettuali che discutono di libri e film coreani. C’è Manolo che gracchia con Luisa di politica e massimi sistemi. E poi c’è lei, Anita, scesa dalla campagna, che parla con le persone e ride e scherza, divertita dalla metropoli e dalle luci e che mi guarda, solo ogni tanto, e mi sorride. Tutti, ma proprio tutti, osservano il sacro blocco di ghiaccio, ammirando la sua perfezione. Osservano anche me a dirla tutta, davanti al vecchio frigorifero giallo, ubriaco al punto giusto, la sigaretta sbracata in bocca, scalfire il monolite con il vecchio strumento del liceo, il magico scalpello. Mi guardano, scrutando la maglietta bagnata e il muscolo che si tende. E poi dicono con voce acuta, «Viva il frigorifero giallo, amico di infanzia e ricordo di tempi andati!»

Due giorni dopo
  Ora in casa non c’è nessuno. Io sono al lavoro e Simone pure. C’è silenzio, un silenzio incredibile, giusto il plick plick delle gocce. Il grande blocco di ghiaccio è sciolto.
  Poi un suono improvviso, strisciante.
Adesso il frigo è aperto, lo sportello mostra il mondo sciolto.
  Guardate.
  Qualcosa si muove.
Di nuovo, il suono veloce, impercettibile quasi.
  Osservate meglio.
Una bocca si apre, piccola e minuscola.
  La cosa striscia.
  Un tempo ibernata.
Si toglie di dosso le gocce d’acqua.
  Cos’è?
Lo vedete, non è vero?
  Non è solo.
  Altri come lui.
  «Vendetta», sussurrano tremando, «vendetta…»
Piccole lingue.
Occhi spalancati.
  Il corpo bianco, viscido, squamoso quasi.
Non tiratevi indietro, abbiate coraggio.
  Loro sono lì.
I vermi studiano il mondo, un moto di rabbia prende il sopravvento. Poi escono dal vecchio frigorifero giallo strisciando, la piccola scia di umido lasciata a ricordo della famiglia sterminata.
  Osservano la casa, il piccolo appartamento rovinato dalla festa, le bottiglie ancora a terra e si appostano, in attesa del ritorno degli ignari umani.
  «Vendetta», ripetono sanguinanti.

Se vuoi scoprire perché i vermi vogliono vendicarsi (soprattutto con Simone ad essere onesti) leggiti:

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